Il carcere come istituzione nasce nel momento in cui la società, per garantire l’ordine e la stabilità, decise di relegare in specifiche strutture chiunque violasse la legge.

Contestualmente agli istituti penitenziari, nacque anche la “questione penitenziaria”. Essendo la pena, in principio, concepita esclusivamente come vendetta sociale atta a punire il colpevole piuttosto che riabilitarlo nella società, questo problema sembrava riguardare solamente gli agenti di custodia. Il carcere, dunque, era ridotto a mero edificio all’interno del quale venivano inflitte le pene stabilite dalla legge, che fossero corporali o di risarcimento monetario.

Fino alla metà del XVIII secolo la detenzione non era una pena concepita come la si intende ai nostri giorni, ma era l’unico mezzo lecito affinché il reo in attesa di giudizio o di condanna non si sottraesse ad essa. Solo successivamente il carcere assunse una importanza anche dal punto di vista sociale, nel momento in cui la privazione della libertà divenne la sanzione più diffusa, a discapito delle esecuzioni capitali.

Grazie ad autori come Cesare Beccaria, si inizia a parlare di concetti quali l’umanizzazione della pena e la detenzione come mezzo di prevenzione e sicurezza sociale piuttosto che come un crudele e disumano deterrente.

Nell’antica Roma il sistema carcerario era considerato solo una forma coercitiva e di arresto per assicurare il colpevole alla giustizia, in linea con il principio “ad continendos homines, non ad puniendos”.

Secondo il diritto romano e conseguente giudizio del tribunale, la pena poteva assumere un carattere privato o pubblico. Nel primo caso, solitamente, la parte lesa riceveva un indennizzo monetario da parte del colpevole come risarcimento per il reato subito; nel secondo caso, invece, oltre la pena capitale si ricorreva alla fustigazione, all’esilio o ai lavori forzati nelle miniere e cave.

Il carcere più famoso e antico della storia romana è senza dubbio il Carcer Tullianum o Mamertino. Dalle fonti di Plinio il Vecchio, sappiamo che era un spazio situato a 12 piedi sotto terra, con pareti e soffitto molto spessi, dall’aspetto nauseante e terrificante a causa delle condizioni di degrado, di scarsità di luminosità e degli odori ristagnanti. Era il luogo in cui venivano reclusi i colpevoli accusati di essere nemici di Roma, di reati contro lo stato e di lesa maestà.

Uno dei locali del Tullianum era adibito a sala delle esecuzioni capitali. Il metodo più utilizzato, solitamente, era lo strangolamento, dopodiché il cadavere veniva lasciato a marcire, appestando l’ambiente e incrementando, così, ulteriori morti tra i detenuti.

In epoca medievale, si verificò un’involuzione nel sistema penale, che da quello romano si orientò sui criteri della vendetta privata.

Con la caduta dell’Impero Romano caddero anche le norme di applicazione della pena, per cui non vi era più un tribunale che agiva tramite processo. La giustizia era amministrata direttamente da chi subiva un reato e la pena, nel migliore dei casi, consisteva nel risarcimento del danno.

Il carcere, in questo periodo, cessa di esistere come forma di privazione della libertà e rinasce come teatro di stampo etico-giuridico fondato sull’antica legge del taglione e sul concetto di espiatio, ovvero una particolare forma di vendetta fondata sul criterio di pareggiare le conseguenze del reato, privando il colpevole di valori quali la vita, l’integrità fisica e il denaro.

Il tribunale era quello di Dio, che dava agli uomini la legge e indicava loro la retta via da seguire; la prigione era solo un luogo di passaggio prima di subire la pena stabilita. Il deterrente, quindi, non era l’istituzione bensì la crudeltà e il sadismo delle pene inflitte, pertanto la detenzione forzata e la tortura divennero i mezzi istruttori con cui si intendeva estorcere la confessione dal reo.

Per parlare di carcere come istituzione penitenziaria “moderna” bisogna attendere la fine del ‘700 con l’affermarsi di una nuova struttura normativo-giuridica.

In un clima di rivoluzioni sociali e politiche, prendono sempre più piede le teorie di Jeremy Bentham che dà al carcere una connotazione intimidatoria e di totale controllo con lo scopo di avere un effetto produttivo e di risocializzazione. Questo progetto, conosciuto col nome di Panopticon, era basato sul principio ispettivo secondo il quale pochi (gli agenti di custodia) potessero controllare molti (i detenuti), e che il controllo potesse essere esercitato su tutti gli atti del detenuto nell’arco delle ventiquattro del giorno.

Nasce così la nuova struttura carceraria con un nuovo disegno architettonico costituito da diversi bracci e rotonde. In questo modo agli agenti di custodia, avendo una postazione fissa, è consentita una visuale totale su ogni braccio, mentre i detenuti diventano facilmente più controllabili e, quindi, gestibili.

Successivamente vennero introdotte nuove misure cautelari e del tutto innovative, come ad esempio la separazione tra detenuti di sesso maschile e femminile, l’isolamento notturno e il lavoro diurno comune. Queste strategie, però, oltre che innovazione portarono anche condizioni di vita peggiori all’interno delle carceri a causa di mancanza organizzativa o di comportamenti al limite della legge del personale di custodia.

Da qui in avanti il carcere si è evoluto come struttura di detenzione e riabilitazione con lo scopo di “correggere” i comportamenti delinquenziali. Purtroppo il problema che affligge queste istituzioni è sotto gli occhi di tutti e il dibattitto per nuove riforme è ancora aperto.

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Psicologo esperto in Sessuologia clinica

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