Dalla nascita dei manicomi alla legge Basaglia

La parola “manicomio” deriva dal greco “manìa”, ovvero “pazzia”, e “komìon”, cioè “ospedale”. Questo termine è utilizzato soprattutto per indicare, più che un luogo di cura, un ambiente in cui venivano internati e segregati i malati di mente.

Nell’antichità la malattia mentale era ricondotta all’intervento di forze soprannaturali e divine e, per questa ragione, veniva “curata” attraverso riti mistici-religiosi. Nel Medioevo le persone che manifestavano comportamenti bizzarri erano considerate possedute dal demonio e venivano condannate al rogo. In tal modo l’anima, una volta liberata dal possesso demoniaco, poteva risalire in cielo.

Nell’età Classica, il concetto di follia subì un cambiamento: erano considerati “folli” coloro che rappresentavano una minaccia per la società e che perciò dovevano essere allontanati. Fu proprio in quel periodo che sorsero moltissime case di internamento, volte a rinchiudere persone con malattie mentali, poveri, vagabondi, mendicanti, criminali, nulla facenti. (Tripputi, 2016)

Una delle prime case sorte allo scopo fu l’Hospital General di Parigi, fondato nel 1656. Qui le persone non venivano rinchiuse per essere curate, ma per finire i propri giorni lontano dalla società. Una volta entrate in questi luoghi, i pazienti venivano spogliati della loro dignità e trattati senza rispetto. Vivevano in condizioni disumane ed erano costretti a subire punizioni corporali. Ben presto, i manicomi si diffusero in tutta Europa e divennero uno strumento di potere enorme, attraverso il quale si decideva, senza utilizzare alcun criterio logico, sulla vita delle persone e su chi dovesse essere rinchiuso. (Tripputi, 2016)

Solo a partire dagli anni Cinquanta del XX secolo l’affermazione di una nuova concezione della psichiatria portò all’abolizione dell’istituto manicomiale in molti paesi. In Italia l’esperienza di Franco Basaglia sfociò nell’approvazione della legge n. 180 del 1978 che stabiliva l’abolizione del manicomio. Avvenne, quindi, la creazione di nuove strutture intermedie dislocate nel territorio, i centri di salute mentale, con funzione di consulenza, programmazione delle terapie, informazione e assistenza. Tale legge, inoltre, imponeva di effettuare i ricoveri volontari o obbligatori solo negli ospedali generali e affermava il principio di “continuità terapeutica, con équipe incaricate di seguire il malato prima, durante e dopo eventuali ricoveri. (Blog “Parlare Civile”)

I reparti dei manicomi

 Nel ricordare la disposizione dei reparti all’interno dei manicomi, Luigi Attenasio, psichiatra basagliano, afferma: “Bisogna partire dal luogo in cui nascono i manicomi, lontano dalla città. I primi manicomi sono i lebbrosari, in quanto, con l’atto di separazione di Pinel, i matti sono considerati malati e non possono stare insieme ai delinquenti. Dunque, Pinel sottrae i “pazzi” dalle catene della delinquenza, ma li consegna ad altre catene, quelle più simboliche della psichiatria che nasce in quel momento”.

Questa tendenza all’isolamento degli spazi dove vengono messi i “matti”, trionferà anche in Italia dopo legge del 1904, quando alcuni manicomi verranno costruiti sulle isole, ad esempio a Venezia nei casi di San Servolo e San Clemente.

Per quanto riguarda la strutturazione dell’ambiente interno dei manicomi, i nomi dei reparti prendevano origine dal comportamento manifestato dai pazienti; nelle prime aree, più vicine all’ingresso, si trovavano i reparti per “tranquilli, laboriosi e ordinati”. In questi spazi si svolgeva la famosa “ergoterapia”, un metodo terapeutico delle malattie mentali consistente nello svolgimento di un’attività lavorativa. Tuttavia, i pazienti venivano sfruttati ed il lavoro svolto confermava la custodia all’interno dell’istituzione. (Blog “Parlare Civile”)

C’erano, inoltre, i reparti di “osservazione”: il paziente che arrivava in manicomio era tenuto sotto osservazione per quindici giorni o un mese; in seguito veniva deciso se ricoverarlo definitivamente o dimetterlo. Seguiva poi il reparto “agitati e inquieti”, per coloro che erano in preda ad agitazione psicomotoria.

Se un paziente all’interno del manicomio si ammalava, veniva mandato al reparto di infermeria; di solito, chi finiva in tale reparto non veniva curato, ma si allettava e si ammalava sempre di più. In seguito, c’era solo la camera mortuaria.

I manicomi, come le prigioni, non sono non luoghi, ma controluoghi, quelli che Foucault chiama eterotopie di deviazione – continua Attenasio –identificabili per il comportamento di chi dentro vi è collocato, deviante la norma e per il diverso funzionamento rispetto alla propria cultura, per l’eterocronia, ossia la rottura assoluta con il tempo tradizionale, per il particolare sistema di apertura e chiusura che li isola e li rende penetrabili. Basaglia capisce subito che il primo atto di salute mentale è la distruzione dei manicomi, che non si può fare psichiatria se esiste il manicomio”. (Blog “Parlare Civile”)

Le torture all’interno dei manicomi

 Prima della legge 180, vigeva la legge 36 del 1904, per cui venivano internate nei manicomi le persone «affette per qualunque causa da alienazione mentale». Erano i deviati, coloro che non rientravano nei canoni, per motivi che non erano sempre legati alla malattia mentale. In manicomio finiva chi era ai margini della società, ma anche gli omosessuali e tante donne.

“La gran parte dei reclusi non erano folli, erano persone che volevano esprimere qualcosa e cadevano nella follia quando questo veniva loro impedito” spiega Anna Marchitelli, che ha studiato le cartelle cliniche dell’ex ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi di Napoli. “I medici– aggiunge –non toccavano nemmeno i pazienti, li analizzavano da lontano toccandoli con una penna o con le chiavi”. (Pizzimenti, 2018)

Le persone all’interno dei manicomi perdevano la propria identità; essi non erano più degli esseri umani, ma dei numeri, costretti a vivere in condizioni pietose e disumane. All’interno degli istituti manicomiali regnava la scarsa igiene; i malcapitati che venivano internati iniziavano ad avere comportamenti che non erano propri della loro malattia. Si può parlare, infatti, di “sindrome dell’allontanamento sociale”: la persona deprivata della sua capacità di stare con gli altri assumeva degli atteggiamenti che diventavano dei veri e propri sintomi. Avveniva il deterioramento delle abilità sociali, interpersonali e comportamentali dovuto all’effetto dell’istituzionalizzazione a lungo termine e non al disturbo mentale in sé. (Blog “Parlare Civile”)

All’interno dei manicomi, inoltre, erano messe in atto delle pratiche raccapriccianti, come l’elettroshock, una tecnica terapeutica usata in psichiatria e basata sull’induzione di convulsioni nel paziente mediante passaggio di una corrente elettrica attraverso il cervello.

La poetessa Alda Merini riporta con tali parole l’atroce ricordo di questa pratica: “In quel manicomio esistevano gli orrori degli elettroshock […] La stanzetta degli elettroshock era una stanzetta quanto mai angusta e terribile […] Ci facevano una premorfina, e poi ci davano del curaro perché gli arti non prendessero ad agitarsi in modo sproporzionato durante la scarica elettrica. L’attesa era angosciosa. Molte piangevano. Qualcuna orinava per terra.
Una volta arrivai a prendere la caposala per la gola, a nome di tutte le mie compagne. Il risultato fu che fui sottoposta all’elettroshock per prima, e senza anestesia preliminare, di modo che sentii ogni cosa. E ancora ne conservo l’atroce ricordo”
. ( De Carolis, 2017)

Un’altra raccapricciante pratica era la lobotomia: un intervento neurochirurgico di interruzione delle fibre nervose che collegano un lobo cerebrale con gli altri. Moniz e Freeman, due medici esperti in lobotomia, sostenevano che questa procedura potesse eliminare i forti stress dei pazienti legati alle emozioni. La paziente Rosemary Kennedy fu solo una delle tante persone ad essere lobotomizzata e la cui “cura” equivalse più ad una “zombificazione” che alla liberazione dalla malattia mentale. (Blog “Il post”, 2011)

Riferimenti bibliografici

 Blog “Il post”- “La triste storia della lobotomia”. https://www.ilpost.it/2  (12-12-2018)

Blog “Parlare Civile”- “Salute mentale. Manicomio”. http://www.parlarecivile.it/  (12-12-2018)

De Carolis, F. (2017). “Elettroshock, se non è una tortura è disumanità”.https://www.remocontro.it/ (14-12-2018)

Pizzimenti, C. (2018). “Storie dal manicomio prima della legge Basaglia”.https://www.vanityfair.it/ ( 13-12-2018)

Tripputi, F. (2016). “Dalla nascita dei manicomi alla loro chiusura. La legge che cambiò la storia in Italia”. https://ainformazione.com/  (13-12-2018)

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About Author

Dottoressa in psicologia clinica. Mi sono diplomata al liceo scientifico Leonardo da Vinci di Vallo della Lucania. Ho conseguito la laurea magistrale in PSicologia clinica l'8 marzo 2018 presso l'università Lumsa di Roma. Attualmente sto svolengo il mio tirocinio post-laurea presso l' istituto per lo studio delle psicoterapie (ISP) di Roma. Ho intenzione di effettuare l' esame di abilitazione e di proseguire il mio percorso specializzandomi in psicoterapia.

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