Oggigiorno ci troviamo a vivere da protagonisti passivi una Terza Guerra Mondiale, un conflitto su scala globale, finalizzato all’accaparramento di risorse. Ebbene sì, tutti quei beni di cui siamo soliti usufruire, sono frutto di armi e munizioni!

Il corso del tempo ha cambiato la prospettiva di visione della guerra, de-ritualizzandola e trasformandola in un interesse economico puro e semplice, abbracciando così una concezione di guerra che non sia più risultato esclusivo di un’evoluzione biologica, ma anche culturale, ossia capace di fornire un mezzo “razionale” per la distribuzione di terra e di risorse. Dalla fame globale di petrolio e dalla scarsità di risorse idriche nasce un conflitto che è solo secondariamente animato da uno spirito religioso o culturale; non ci si aspetta dunque una risposta di accettazione passiva da parte delle nazioni indigenti impossibilitate nell’accesso alle materie prime, bensì un cambiamento nella concezione di energia, consumo e benessere da parte delle nazioni più agiate, tale da mutare visione e non intendere più una risorsa come motivo sufficiente per uccidere o distruggere.

Dovremmo concentrare il nostro futuro sul benessere e meno sull’energia. A partire dalla scoperta e l’utilizzo di fonti fossili, l’essere umano ha perso quella capacità di adattamento che emergeva in periodi di scarsità di risorse, nella creazione di nuovi modi per soddisfare i propri bisogni; attualmente, l’uomo vive nell’illusoria sensazione di possedere risorse inesauribili che gli garantiscono la salvezza dalla miseria, avvicinandolo ad una condizione illimitata di benessere. Questo ha segnato una crescita continua dei consumi ponendo l’essere umano sulla via di un agire istintivo, conducendo una vita incentrata sull’ “avere”, sulla quantità che lo allontana da un uso razionale ed equilibrato dei beni.

Il disastro ecologico generato dal conflitto

 Il conflitto insanguina l’intero ecosistema, generando danni diretti, come distruzioni di ecosistemi da parte degli eserciti o indiretti, come deforestazione o crisi migratorie ecc..; tali danni ambientali raggiungono il picco intorno agli anni Sessanta, quando si assiste ad un impiego delle armi diffuso via aria e via acqua con effetti poco noti sulla salute e sull’ambiente e prolungati nel tempo. Tra i diversi esempi di devastazione, si riporta l’utilizzo da parte delle forze Armate nel Sud Est Asiatico, di potenti erbicidi e defolianti finalizzati a rimuovere la vegetazione da alcuni settori di giungla, e la riduzione massima della popolazione di palme durante la guerra in Iraq.

La prima vera valutazione ambientale post-conflitto riconosciuta a livello mondiale, emerge dagli studi condotti da Pekka Haavisto sulle guerre che hanno scosso l’ex-Jugoslavia, precisamente la campagna in Kosovo: per la prima volta, sono state mosse accuse di terrorismo ambientale. In questa occasione si sono riunite diverse organizzazioni (Wwf, Iunc, Croce Verde Mondiale) e governi con l’intento di dimostrare che, i danni ambientali durante il conflitto, possano essere ampiamente ridotti, di modo che i civili non ne soffrano ulteriori conseguenze.

Danni di natura Psicologica generati dal conflitto

La guerra non muore con la cessazione di fuoco, ma sopravvive nelle menti dei suoi protagonisti, attivi e passivi, caduti vittime delle sue conseguenze dannose. Di fatto, le vittime di guerra, corrono un rischio massimo di sviluppare un trauma psichico; ossia, una lacerazione improvvisa, violenta ed imprevedibile della propria integrità psichica, tale da causare un’alterazione permanente della capacità soggettiva di adattamento.  Durante il pieno conflitto della Guerra del Vietnam, il Trauma da Guerra era stato valutato dall’APA come una rarità, a tal punto che, fu rimosso dal Manuale Diagnostico ogni tipo di riferimento nei riguardi dei disturbi da stress. Fu solo con la revisione del DSM-3 che nel 1980, le sofferenze dei Veterani del Vietnam furono riconosciute formalmente ed etichettate come Disturbo da Stress Post Traumatico.

Nel mondo della Psicologia iniziò a primeggiare l’interesse verso la cura del benessere emotivo e psicologico dei soldati impegnati nelle operazioni militari, con lo scopo di intervenire e prevenire l’insorgenza di Disturbo da Stress Post Traumatico e all’interno dell’esercito Statunitense venne istituita un’Unità di Combat Stress Control, costituita da un nucleo operativo specificamente formato, composto da: Psichiatri ,Psicologi, Counselor ,Assistenti Sociali e Infermieri. Quest’equipe interviene con l’obiettivo di fornire supporto psicologico al personale e al network del militare (famiglia, associazioni ecc) al fine di garantire benessere individuale ed efficienza operativa, controllando l’aspetto psichico su una dimensione longitudinale, ossia prima, durante e dopo la missione.

L’intervento si ha sia sul fronte dei teatri operativi di guerra, che sul funzionamento normale del sistema in condizioni di pace; emergono infatti studi sui disturbi acuti di stress, disturbi del sonno, studi delle strategie di coping in condizioni avverse In un’intervista rilasciata da Isabella Lo Castro,  che dal 2000 svolge le funzioni di Psicologa Militare, sostenendo i soldati nelle zone di guerra e i familiari nelle situazioni più difficili, emerge come la difficoltà riscontrata nel riadattarsi al teatro operativo sia la stessa riscontrata dal soggetto nel riadattarsi alla vita quotidiana di casa; questo perché ad una prima fase di “luna di miele”, dove il superstite vive un transitorio ottimismo per via della sua capacità di sopravvivenza,  segue una fase di disillusione dovuta ad un perturbamento dell’equilibrio psico-fisico e ad un incremento della sintomatologia del PTSD. Lo Psicologo Militare ha il compito di promuovere e attivare interventi di formazione per la gestione dello stress con lo scopo di aumentare la resilienza dei militari, poiché il PTSD sviluppato su campo di battaglia ha un differenza sostanziale rispetto a quello vissuto a seguito di una catastrofe naturale, dal momento che va a colpire tutti quei valori in nome dei quali il militare intraprende una carriera totalmente integrata alla sua vita personale.

Conclusioni

Dovremmo andare a riscoprire la nostra connessione intrinseca all’intera rete di vita globale: animali, piante, uomini e minerali, e coltivare la nostra “intelligenza ecologica” per comprendere l’impatto che il nostro agire ha sull’ ecosistema, in modo tale da correggerlo e causare un minor numero di danni all’ambiente, per vivere immersi in esso e appagarsi con giusta moderazione, di quanto questo offre, riconoscendo il valore proprio di ogni risorsa.

Sitografia

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–  http://www.lavocedinewyork.com/onu/2017/09/25/acqua-e-pace-quando-la-guerra-si-combatte-anche-con-le-risorse-idriche/

http://www.ecquologia.com/notizie/approfondimenti/2830-piu-benessere-meno-energia-un-futuro-possibile-e-venne-l-uomo

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About Author

Sono Lilly Cavicchioni; ho recentemente conseguito la laurea Magistrale in Psicologia Clinica e di Comunità presso l’Università Europea di Roma. In passato ho svolto un tirocinio formativo pre-laurea presso l’associazione DAI, Disturbi Alimentari in Istituzione, e al momento sto svolgendo il tirocinio post-laurea presso il Policlinico Agostino Gemelli di Roma, mantenendomi nel settore dei Disturbi Alimentari. Al termine del tirocinio effettuerò l’esame di abilitazione alla professione per poi continuare il mio percorso formativo nell'ambito della psicoterapia, scegliendo una scuola di specializzazione con un approccio Cognitivo Comportamentale.

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